Recensire un disco dell’heavy metal band più famosa del mondo non è mai un impresa facile, specie quando i numeri (degli album) si fanno grossi.
“The Final Frontier” è infatti il quindicesimo studio album degli Iron Maiden.
Anche in questo caso Harris e compagni portano avanti il discorso musicale iniziato dopo la reunion del 1999, ovvero lasciano da parte il metal più immediato tipico degli ’80 in favore di un sound apparentemente più strutturato e meno aggressivo.
Dopo un album lungo come “A Matter Of Life And Death” i Maiden insistono su queste coordinate proponendo un disco che può essere diviso in due tronconi:
una prima parte composta da brani di breve/media durata e una seconda con canzoni molto lunghe.
Rispetto al predecessore le liriche trattano temi più leggeri, di stampo fantascientifico.
Dopo la superflua intro Satellite 15 si parte con due brani scanzonati dal retrogusto hard rock, la title-track e il singolo El Dorado.
The Final Frontier ha un coro tanto semplice quando irresistibile, da canticchiare fin da subito, e degli assolo di chitarre quantomeno indovinati.
Sulla stessa falsariga El Dorado che si distingue per una buona trama chitarristica e con un Bruce Dickinson che vola alto nel ritornello.
Anche in questo caso l’immediatezza la fa da padrone.
Si prosegue con Mother Of Mercy, un brano che parte arpeggiato ma che poi si rivela decisamente più heavy e ben congegnato, anche se forse il coro manca di un pizzico di melodia in più.
Coming Home è l’unico brano lento del disco (anche se non propriamente una ballad classica):
sicuramente uno dei pezzi più riusciti con una grande prestazione da parte di Dickinson e con degli assolo davvero sentiti.
The Alchemist è invece un up-tempo che ricorda maggiormente i Maiden di vecchia data:
brano godibile ma non eccelso.
Da qui in poi si prosegue con i pezzi di lunga durata e il primo della serie è Isle Of Avalon che richiama le atmosfere di “Dance Of Death” e di “A Matter…”.
Apertura lenta ed evocativa che porta ad un crescendo di atmosfera e ad un ritornello ancora una volta cantato molto alto da Dickinson.
Nella parte centrale le chitarre creano un groove quasi jazzistico fino a che il brano non si avvolge su se stesso.
Un buon pezzo.
Starblind è un altro degli highlight dell’album:
dopo una parte lenta, il brano decolla grazie a una ritmica accattivante e ad un grande coro interpretato magistralmente da Dickinson che mette in mostra il suo range vocale.
Gran pezzo! La successiva The Talisman è probabilmente la miglior canzone del lotto.
Un grandiosa cavalcata in pieno Maiden-style con un coro superbo, battaglie di chitarre e chi più ne ha più ne metta! Un futuro classico da riproporre assolutamente dal vivo:
commovente! Purtroppo gli ultimi due brani, pur non brutti, non si rivelano all’altezza delle migliori composizioni di “The Final Frontier”, risultando anche eccessivamente prolissi.
Scontato ma doveroso dirlo:
prestazione impeccabile dei sei musicisti e una buona produzione ad opera della coppia Shirley/Harris.
Gli Iron Maiden, al contrario di molte band storiche, hanno deciso di non perpetrare all’infinito il sound più veloce e immediato che li ha resi famosi e, pur rimanendo sostanzialmente fedeli a se stessi, cercano di produrre brani più lunghi (talvolta a sproposito) ed epici, forse più in linea con la loro attuale età.
Personalmente, pur amando alla follia i capolavori degli anni ’80, ho apprezzato questa piccola svolta e il tentativo di diversificarsi (almeno in parte) dagli albori della loro carriera.
Questo “The Final Frontier” si rivela come un disco discreto, con qualche gemma e qualche caduta di tono, che a mio modo di vedere lo rende inferiore al precedente “A Matter Of Life And Death”, che reputo un album più che buono (anche se a mio avviso i capolavori dei i primi anni non verranno più).
Se anche voi apprezzate i Maiden del 2000, nel loro nuovo contesto, non rimarrete delusi da “The Final Frontier”, se invece siete irrimediabilmente ancorati a The Trooper o Run To The Hills, questo nuovo album non vi farà cambiare idea.